In quanti modi si può raccontare una storia? Ogni catena di avvenimenti può essere narrata infinite volte, trasformandosi a seconda della combinazione di voci, di prospettive e di pubblici. Le storie di chi emigra oggi dall’Albania mutano a seconda del modo in cui possiamo e vogliamo guardarle: più si scava, più aumenta il numero di versioni dei fatti da tenere in considerazione.
Per ricevere accoglienza e sostegno i ragazzi e le ragazze che arrivano in Italia devono presentarsi come minorenni senza famiglia e senza legami, bisognosi di aiuto e disponibili a aderire al sistema delle comunità e dei servizi sociali locali. Nessuna menzogna, soltanto la necessità di sottolineare e di accentuare alcuni aspetti e una specifica versione della propria storia.
Accanto a questa versione della storia ce ne sono molte altre, con sfumature, enfasi e omissioni differenti: “mi raccomando, alla nonna racconta solo cose belle”; “alla mia educatrice non l’ho detto”; “ricordati che a casa questo non lo sanno”.
La narrazione improntata sul bisogno e sulla mancanza non funziona per tutti i pubblici. Anche il dubbio e l’insuccesso in molti casi devono essere messi da parte perché, macchiando le narrazioni di riscatto ed emancipazione del giovane e dell’emigrante, generano sofferenza. La sofferenza di chi emigra e non sempre vuole guardarsi allo specchio, ma anche la sofferenza di chi resta a casa a preoccuparsi, ad attendere, a pregare e a sperare per chi è partito: “alla mamma le cose brutte non le racconto, si preoccupa troppo”.
Chi emigra deve fare attenzione a ciò che dice e a ciò che mostra, curando meticolosamente l’immagine che restituisce di sé attraverso i social, le telefonate e i ritorni a casa. Vestiti, telefono, orologio, taglio di capelli, compagni di selfie e paesaggi sullo sfondo. Tutto conta, non c’è spazio per l’insuccesso e spesso è meglio tralasciare anche i piccoli incidenti di percorso, le disavventure o i cambi di direzione. Agli amici e alle amiche, per esempio, è normale voler apparire come energici e vincenti. Come quando si rientrava in Italia dalla Germania e bastavano una bella auto e un vestito elegante per prevenire domande imbarazzanti e chiarire immediatamente come erano andate le cose.
Sullo sfondo del racconto che ogni giovane migrante fa di se stesso, ci sono le percezioni e le versioni dei tanti pubblici che ha attorno. Quelle che prendono forma nel paese d’origine, che a volte raccontano questi ragazzi e queste ragazze come l’ultima generazione di un popolo di emigranti che da trent’anni lascia la terra natia per cercare fortuna altrove. Per cercare una rivincita personale, collettiva e nazionale. Degli emigranti siamo orgogliosi, qualcuno dice in giro, è a loro che dobbiamo tutto. Ma nei bar e nei mercati albanesi qualcun altro la racconta diversamente, dipingendo una generazione senza sogni e senza valori, che rinuncia al futuro per inseguire guadagni facili, carriere di dubbia moralità, ideali di successo e di consumo presi in prestito da Youtube o da qualche boss di quartiere. Figli di genitori irresponsabili che alzano le spalle davanti agli slanci e ai tentativi disordinati dei più giovani.
Ci sono le versioni italiane, che anche al di qua del mare prendono forma tra le prime pagine dei giornali, i discorsi da bar e una storia trentennale di relazioni quotidiane.
Questi sono i soliti albanesi, dice qualcuno, che ci portano via il lavoro e l’integrità; questi sono furbetti che si approfittano di noi e delle tasse che paghiamo. Ma sono anche brava gente, come quel ragazzo che conosciamo da una vita, la signora che lavora al negozio, i compagni di classe dei nipoti: se non lo sapessi non lo diresti mai che non sono italiani, è gente come noi. Hanno imparato l’italiano in televisione, guardano la Rai, amano il nostro Paese. Oppure sono ragazzini e ragazzine da accogliere, povere creature. Ci sono educatrici, assistenti sociali e giudici che ogni giorno lavorano per sostenerli, animati dalle migliori intenzioni, li accolgono come bambini e bambine da proteggere, vittime di sfruttamento o di negligenza, soggetti da tutelare.
Ci sono versioni che variano in base all’età, con ragazze e ragazzi che sono sempre troppo piccoli o troppo grandi. Storie che funzionano per chi ha sedici o diciassette anni ma che mutano di significato al compimento del diciottesimo. Il compleanno fatidico in cui si cambia registro per parlare di adultità, autonomia e conversione del permesso di soggiorno.
Come per tutte le storie e tutte le vite, ogni versione del racconto è legittima e importante. Ha un’origine specifica ed elementi di radicamento nelle storie e nella storia. Ma anche componenti soggettive, quelle in prima persona, che restituiscono la sensibilità e la prospettiva delle tante umanità coinvolte: la prima persona singolare di ogni giovane in migrazione, di ogni genitore in attesa, di chi ha scelto di non partire e di chi avrebbe voluto farlo. Il punto di vista dell’elettore, del contribuente, dell’attivista. Il punto di vista di chi ha convinzioni radicate, di chi ha molti dubbi o di chi non ha alcun interesse per le vicende di chi se ne è andato.
Difficile trovare punti di equilibrio tra tutte queste versioni o arrivare a una sintesi soddisfacente. A volte vorremmo proprio capire quale sia la verità, quale il racconto di cui dobbiamo fidarci. E se invece accogliessimo ogni racconto, esplorandone e apprezzandone l’origine e il significato?
Potremmo soffermarci sui tanti punti di vista in gioco, coglierne l’importanza, capire come si aggancia all’unicità di ogni storia e a un insieme complesso di vicende storiche, sociali, culturali. Ascolto, riconoscimento e dialogo creano una base solida per offrire risposte puntuali e politiche coerenti per ciascuno e per ciascuna.
Risposte e politiche che sappiano contestualizzare ogni versione e accogliere le istanze di tutti e di tutte, che non si accontentino del lessico dei diritti o degli slogan del lavoro sociale, che sappiano capire anche le tensioni aggressive o espulsive, senza però farsi travolgere. Risposte che sappiano conciliare le prospettive individuali con la ricerca non retorica di un bene collettivo, politiche che non perdano tempo a giudicare le scelte migratorie all’insegna del merito o della colpa, concentrandosi invece sulla costruzione di cornici e di strumenti che permettano di affrontarle liberamente, consapevolmente e con fiducia.
Sullo sfondo del racconto che ogni giovane migrante fa di se stesso, ci sono le percezioni e le versioni dei tanti pubblici che ha attorno. Quelle che prendono forma nel paese d’origine, che a volte raccontano questi ragazzi e queste ragazze come l’ultima generazione di un popolo di emigranti che da trent’anni lascia la terra natia per cercare fortuna altrove. Per cercare una rivincita personale, collettiva e nazionale. Degli emigranti siamo orgogliosi, qualcuno dice in giro, è a loro che dobbiamo tutto. Ma nei bar e nei mercati albanesi qualcun altro la racconta diversamente, dipingendo una generazione senza sogni e senza valori, che rinuncia al futuro per inseguire guadagni facili, carriere di dubbia moralità, ideali di successo e di consumo presi in prestito da Youtube o da qualche boss di quartiere. Figli di genitori irresponsabili che alzano le spalle davanti agli slanci e ai tentativi disordinati dei più giovani.
Ci sono le versioni italiane, che anche al di qua del mare prendono forma tra le prime pagine dei giornali, i discorsi da bar e una storia trentennale di relazioni quotidiane.
Questi sono i soliti albanesi, dice qualcuno, che ci portano via il lavoro e l’integrità; questi sono furbetti che si approfittano di noi e delle tasse che paghiamo. Ma sono anche brava gente, come quel ragazzo che conosciamo da una vita, la signora che lavora al negozio, i compagni di classe dei nipoti: se non lo sapessi non lo diresti mai che non sono italiani, è gente come noi. Hanno imparato l’italiano in televisione, guardano la Rai, amano il nostro Paese. Oppure sono ragazzini e ragazzine da accogliere, povere creature. Ci sono educatrici, assistenti sociali e giudici che ogni giorno lavorano per sostenerli, animati dalle migliori intenzioni, li accolgono come bambini e bambine da proteggere, vittime di sfruttamento o di negligenza, soggetti da tutelare.
Ci sono versioni che variano in base all’età, con ragazze e ragazzi che sono sempre troppo piccoli o troppo grandi. Storie che funzionano per chi ha sedici o diciassette anni ma che mutano di significato al compimento del diciottesimo. Il compleanno fatidico in cui si cambia registro per parlare di adultità, autonomia e conversione del permesso di soggiorno.
Come per tutte le storie e tutte le vite, ogni versione del racconto è legittima e importante. Ha un’origine specifica ed elementi di radicamento nelle storie e nella storia. Ma anche componenti soggettive, quelle in prima persona, che restituiscono la sensibilità e la prospettiva delle tante umanità coinvolte: la prima persona singolare di ogni giovane in migrazione, di ogni genitore in attesa, di chi ha scelto di non partire e di chi avrebbe voluto farlo. Il punto di vista dell’elettore, del contribuente, dell’attivista. Il punto di vista di chi ha convinzioni radicate, di chi ha molti dubbi o di chi non ha alcun interesse per le vicende di chi se ne è andato.
Difficile trovare punti di equilibrio tra tutte queste versioni o arrivare a una sintesi soddisfacente. A volte vorremmo proprio capire quale sia la verità, quale il racconto di cui dobbiamo fidarci. E se invece accogliessimo ogni racconto, esplorandone e apprezzandone l’origine e il significato?
Potremmo soffermarci sui tanti punti di vista in gioco, coglierne l’importanza, capire come si aggancia all’unicità di ogni storia e a un insieme complesso di vicende storiche, sociali, culturali. Ascolto, riconoscimento e dialogo creano una base solida per offrire risposte puntuali e politiche coerenti per ciascuno e per ciascuna.
Risposte e politiche che sappiano contestualizzare ogni versione e accogliere le istanze di tutti e di tutte, che non si accontentino del lessico dei diritti o degli slogan del lavoro sociale, che sappiano capire anche le tensioni aggressive o espulsive, senza però farsi travolgere. Risposte che sappiano conciliare le prospettive individuali con la ricerca non retorica di un bene collettivo, politiche che non perdano tempo a giudicare le scelte migratorie all’insegna del merito o della colpa, concentrandosi invece sulla costruzione di cornici e di strumenti che permettano di affrontarle liberamente, consapevolmente e con fiducia.