Ti racconto una cosa grande

Cristina Cavallo e Camilla Pin Montagnana

Parlare di sé con le fotografie appare più semplice che farlo in un percorso fatto di parole, interamente incentrato sull’uso dell’italiano, lingua in cantiere. Eppure, la sfida sta nel riuscire a scegliere cosa dire di sé, in che modo e perché, parlando a chi non si conosce. E farlo pubblicamente, sapendo fin dall’inizio che i propri lavori individuali sono destinati a un sito web.

Per due mesi siamo state in uno spazio online nato per raccontarsi attraverso le immagini. Insieme a noi Abdoul, Ibrahim, Kristian, Magdy, Mary, Momo, Marvis, Mehdi, Moustafa e Sherif, minori stranieri non accompagnati.

Quello che è accaduto tra l’avvio del laboratorio e la chiusura dei progetti individuali è stato un movimento di avvicinamento, che ha richiesto di avanzare ciascuno al suo passo, verso il centro.

Passo numero uno, corsa di riscaldamento sul posto

Non sappiamo di quali immagini ferme e in movimento è fatto il presente di un ragazzo o di una ragazza di poco meno di 18 anni. Ci scopriamo molto impreparate. Le domande che poniamo ci tornano indietro. Come se rimbalzassero sulle webcam disattivate, il microfono in muto e quel solco di quindici anni in cui siamo inciampate. 

“non vedo la televisione da due anni”, “no, youtube non lo uso tanto”, “instagram lo uso solo per parlare”, “Facebook non è per vecchi, tutto è partito da lì, non dirò che è per vecchi, perché da quella idea poi è nato tutto il resto, però…”

Poi, mentre ascoltiamo le canzoni che ciascuno ha portato per raccontarci la musica preferita del momento, il gruppo reagisce quasi all’unisono.

È Treni – di Baby Gang ft. Il Ghost. Qualcuno si raddrizza sulla sedia, mentre il video scorre, li vediamo scandire le parole dietro lo schermo. Alla fine dell’ascolto c’è la corsa all’accensione dei microfoni. 

“Quanto mi è piaciuta questa canzone!”, “Ma la conoscono tutti questa canzone!” e via a ripercorrere il percorso di vita di Baby Gang, rapper diventato famoso nel 2020 di cui qualcuno sa persino che vive a Milano San Siro.

Passo numero due, al ritmo del cuore

Per cominciare a pensare a cosa raccontare di sé, partiamo dal descrivere il mondo intorno. Per scegliere cosa svelare, quali frammenti delle loro identità complesse dire ad alta voce, superando la fatica di farlo in una lingua appena imparata, mostrando luoghi e oggetti privati. Soffermandosi sulle cose più semplici come un pasto, o portando quelle più preziose, raccontarsi ha significato, a tratti, parlare del proprio passato, richiamarlo al cuore: ricordare.

Ibrahim ha fotografato il suo comodino, notiamo subito molti oggetti, ben sistemati. Ibrahim agli incontri si mostra sempre molto serio, ride raramente, tiene il cappuccio e interviene spesso per dire la sua, incalzandoci con gentilezza per chiedere spiegazioni. Per questo ci cade subito l’occhio sui quei piccoli animali in plastica, posizionati come se andassero dalla stessa parte, accanto al suo libro per la patente.

“Sono le mie cose personali e sì, è sempre così ordinato. Ci sono le cose che mi piacevano da bambino, messe da parte. Sono cose che ho trovato in giro, da quando sono qui, e mi sono ricordato che mi piacevano. Quando le guardo mi fanno ricordare quando ero bambino.”

Passo numero tre, correre a perdifiato

Scelto cosa raccontare, ci esplodono di fronte le foto, le immagini scelte, le didascalie, le ragioni del proprio progetto individuale. I lavori pongono di fronte all’urgenza e alla delicatezza infrangibile del loro vissuto. Guardando i progetti ci sono poche frasi, in alcuni casi poche foto, in alcuni progetti scelte di denuncia e rivendicazione e in altri una cosa semplice come una bicicletta.

La loro potenza sta nel fatto che quella è la storia che hanno scelto di raccontare. Non solo il ricordo, la tristezza, il passato, i traumi, ma soprattutto il (loro) presente in costruzione.

Moustafa sceglie dei paesaggi sereni, assolati e pieni di verde. E sì, ci racconta cosa pensa quando lo vede, quel prato tranquillo vicino alla sua comunità: gli ricorda quando appena arrivato in Italia dormiva per strada e non aveva cibo. Vuole che lo sappiamo che a 15 anni non aveva un letto né da mangiare, ma soprattutto ci ricorda: sono qui e vado avanti, da qui in poi.

“Ho deciso di fotografare dei luoghi che mi piacciono e mi fanno stare bene. Sono bellissimi, ma a me ricordano anche un’altra cosa. Appena arrivato in Italia ho vissuto un mese in strada, non potevo lavarmi e non avevo nulla da mangiare. È stato un mese duro e mi mancava molto la mia famiglia. Ora sono in comunità e sto bene.L’altro giorno mi sono comprato scarpe e vestiti nuovi e mi sono fatto un selfie ma non scorderò mai ciò che ho fatto per arrivare fino a qui.” 

Durante l’ultimo incontro, mostriamo i progetti finiti o quasi conclusi, uno alla volta. Il gruppo li vede per la prima volta. Quando è il turno di Magdy, iniziano a scorrere le foto che ha scelto del suo viaggio lungo la Rotta Balcanica.  Magdy ha segnato a penna su una cartina le tappe del suo viaggio per arrivare in Italia dall’Egitto e ha scelto di mostrarsi lungo il  percorso. 

“Stavamo parlando con il trafficante. In Grecia”

“Stavamo dormendo sulla montagna in Croazia”

Quando arriviamo all’ultima foto, dopo una serie di scatti fatti in viaggio, di un Magdy più piccolo di quello che conosciamo, che si mostra sorridente eppure progressivamente sempre più magro, lui prima tentenna nel parlare e poi esclama: oh ma sono cresciuto! e ride.

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