Capitolo 5
Ritorno a Elbasan
“Ho provato grandi emozioni, quando ho visto mia mamma davanti al cancello ad aspettarmi, è stato bellissimo. Non la vedevo da quasi due anni, l’ho abbracciata, lei stava piangendo. E poi la nonna…grazie per questa possibilità. Ho raccontato solo le cose belle, non ho voluto raccontare i problemi o le cose che non vanno”.
Denis si muove attorno al tavolo da biliardo con stile. I suoi amici, attorno, lo prendono in giro: non è più imbattibile come un tempo e i cugini che vivono in Germania sono sempre pronti per una sfida. “Mi hanno insegnato loro a giocare”, racconta Denis, “ma si vede che ho perso la mano! Ho perso pure con il mio amico Leo, che all’epoca non sapeva neanche tenere la stecca”.
Prima c’è stata la battuta di pesca al fiume, in un’ansa del fiume Shkumbin, che attraversa sinuoso la valle di Elbasan e dei villaggi limitrofi. Mentre pesca Denis è silenzioso, come un pensionato nel corpo di un ragazzino. Assieme agli scacchi, e al biliardo, la pesca è la sua grande passione. “Mi piace fare cose dove devo pensare”, racconta Denis, con la solida determinazione di sempre, la stessa che mette nel chiedere puntigliosamente il significato di ogni parola italiana che non conosce ancora.
È tempo di incontrare la famiglia di Denis. La famiglia è tutta schierata nel portico della casa: il nonno, la nonna, la madre di Denis e la zia, che sfoggia una felpa con la scritta ITALIA. Sono radiosi, fieri allo stesso tempo di Denis, felici di averlo con loro e di poter conoscere le persone che lo hanno accompagnato in questo viaggio. Il cane Balo, per non far torto a nessuno, abbaia feroce anche contro di noi.
Nel cortile della casa si affaccia anche la casa dello zio, dove ora ci sono i due cugini che vivono in Germania. Con Denis erano inseparabili, almeno fino al 2015, quando hanno deciso di partire. “Mi sono sentito vuoto”, racconta Denis. “Non ero ancora pronto a pensare di andare via anche io, ma la loro partenza mi ha fatto sentire vuoto”.
Nonno Rakip è un tornado. Versa grappa senza sosta, fermandosi solo per alternarlo a del buon caffè turco, fuma come una delle torri del Kombinat di Elbasan, il complesso siderurgico che negli anni di massima espansione ha dato lavoro a decine di migliaia di operai, tra i quali anche il nonno di Denis. “Fidatevi solo della grappa fatta in casa! Solo quella fa bene, lo dice anche il dottore!”, racconta Rakip, mentre Xheva lo rincorre per tradurre. “Sono stato un soldato, ho avuto un negozio, ma per molti anni ho lavorato al Kombinat. All’epoca il lavoro c’era, oggi siamo soli, nessuno si occupa dei giovani e dei vecchi. La nostra famiglia ha sofferto tanto, Denis ha lasciato un grande vuoto, ma deve seguire la sua vita. Qui non c’è futuro per lui e per nessuno”.
Le donne di casa sono sedute sul divano, lasciando a nonno Rakip il capotavola e agli ospiti le sedie. Ridono e si commuovono, guardano Denis che sorride. “Io non avevo il telefono, andavo nel villaggio per averne uno in prestito, ma a fatica siamo sempre riusciti a restare in contatto. Questo mi ha aiutato a sopportare la sua mancanza. Sentirlo felice, sapere che studia, che si sente bene e che lavora al suo progetto mi permette di non soffrire troppo”, racconta mamma Lutfje, che non smette di commuoversi e di abbracciare Denis.
“Sono malata da tempo, la sanità pubblica praticamente non esiste, e senza soldi non puoi curarti. Mi arrangiavo con piccoli lavori da sarta, ma quando è morto mio marito non avevo nulla da dare a mio figlio per il suo futuro. Viviamo con la misera pensione dei nonni, non avremmo potuto farlo studiare. Spero che vada avanti, che tenga duro, e appena potremo staremo di nuovo assieme in Italia. All’inizio mi sono opposta al suo viaggio, ero sola, senza un soldo, sentivo che avrei perso tutto. Ma alla fine lui aveva già deciso e non ho potuto fermarlo e oggi dico che vederlo così felice è bello.”
La casa è uno specchio, dignitosa e spartana, abitata dall’affetto di una famiglia riunita. Che riempie anche quel vuoto, quell’assenza, che il padre di Denis ha lasciato nelle loro vite.
“Prima fumavo, ogni giorno, ma quando è morto mio padre ho smesso. Me l’ha chiesto lui, l’ho promesso. Ha avuto un cancro, ero molto legato con lui, anche se partiva sempre, in Albania o all’estero – racconta Denis – Lo vedevo sette, otto volte all’anno, faceva il bracciante agricolo, e quando era qua stavamo sempre assieme, ci raccontavamo quello che facevamo. Era un tipo molto simpatico, non litigava mai, non era aggressivo, ci divertivamo assieme. Lo vedevo poco. Anche da malato ha continuato a lavorare per noi, solo gli ultimi tre mesi li ha passati a letto. Non gli avevo detto nulla dell’idea di andare via, lui mi chiedeva sempre di studiare, ma le cose si sono complicate e sono partito. Lo zio faceva quello che poteva, ma erano all’estero e dovevano pensare alla loro famiglia. Non potevamo restare tutti sulle spalle del nonno. Sarebbe felice della mia decisione, mi manca, gli vorrei raccontare dell’Italia, dello studio, dei miei progetti. Sì, sarebbe felice”.
Il nonno è una figura chiave della vita di Denis, perché anche quando c’era il padre, che era sempre via per lavoro, era lui la sua figura di riferimento. “Nonno è severo e buono, quando serve. Mi manca, tanto, ha fatto tanto per me”, racconta Denis. “In Italia, tante volte, mi addormento e sogno di lui, di questo orto, di questa casa. Sogno che chiacchieriamo, che gli racconto come mi sento, come facevo quando era qua. Ma sono ancora convinto, anche se mi mancano tanto, che ho fatto la scelta giusta”
NELLE FOTO: il nonno di Denis e il Kombinat di Elbasan
Denis ci guarda, è divertito, è come se mettesse assieme le due parti di una fotografia strappata: il suo passato e il suo futuro.
“Le cose cambiano quando non ci sei. Sono andato dal mio barbiere, mi ha visto crescere. All’inizio son rimasto male, non chiacchierava con me. Allora gli ho chiesto se mi avesse riconosciuto, mi ha detto di no! Quando gli ho detto chi ero era felice, ma mi ha anche rimproverato perché non mi sono fatto sentire dall’Italia”, racconta Denis. Ma il barbiere non è stata l’unica sorpresa. “Hanno dovuto tagliare un albero di prugne nell’orto del nonno, ma che peccato, ero molto affezionato a quell’albero. Venivano tutti i bambini del villaggio per rubare le prugne e io le difendevo a ogni costo. E son rimasto davvero sorpreso quando ho visto che uno dei ristoranti più famosi della zona non c’è più, sostituito da un negozio, ma ci sono anche cambiamenti positivi, come il castello di Elbasan, che quando vivevo qui era un po’ diroccato e ora è stato sistemato”. Migrare significa anche mettere in conto che il tempo, e il luogo che lasci, non ti aspetta. Denis guarda, tocca, registra. Come a non voler dimenticare nulla di questo viaggio, come a metterlo in confronto con i suoi ricordi.
Tornando verso Elbasan, da Vidhas, si scorge il profilo del Kombinat, come una cattedrale di ferro e acciaio, che si staglia sulla valle. Una città nella città, dove le stradine d’asfalto malconcio si coprono di polvere a ogni passaggio di macchina; alcuni uomini siedono silenziosi sotto la veranda di una baracca dove si vendono utensili meccanici. Più in là si vedono operai abbronzati che trasportano blocchi di metallo multicolore, quasi delle installazioni astratte d’arte contemporanea. L’atmosfera ha qualcosa che ricorda alcuni film di regime dell’Albania degli anni ‘80, ma polverosa come un set abbandonato dopo le riprese. Archeologia industriale invasa da piante selvatiche, cumuli di rifiuti, la natura che invade rapidamente gli ambienti urbani una volta abbandonati dall’uomo. Due ragazzi frugano per recuperare metallo da rivendere.
Il Kombinat risale ai tempi della grande amicizia con la Cina, dopo che il regime albanese di Enver Hoxha aveva progressivamente rotto le relazioni con la Jugoslavia prima e con l’URSS dopo, ed è il simbolo dell’industrializzazione d’importazione con la quale Tirana sognava di traghettare il paese da un’epoca rurale e agricola a un futuro di modernità e sviluppo. Ecco che Elbasan viene scelta dal regime per la costruzione del Metalurgjiku, eretto tra gli anni ’60 e ’70 grazie ai cinesi e diventato il fiore all’occhiello dell’industria albanese, in cui avveniva la lavorazione di metalli pesanti con i quali poi si riforniva l’intera industria albanese.
Cosa resta oggi di tutto questo? Le rovine, piccole aziende turche e cinesi e un inquinamento dell’aria cinque volte superiore alla soglia di tolleranza fissata dalla legislazione albanese e dieci volte superiore alla soglia di tolleranza nell’Unione europea. Denis ha un appuntamento, con i vecchi compagni di scuola, che si preparano agli esami di fine anno. Lo accompagneremo, per parlare di lui e dei sogni dei ragazzi di Elbasan.
Le cose cambiano quando non ci sei