Capitolo 4
Sudore e lacrime: il fratello e la madre di Aleksandro
Fier ti accoglie con i palazzi del centro che hanno mantenuto le forme del periodo socialista, ma sono stati ridipinti, di colori vivaci, come a voler cancellare il grigio di un tempo, ma senza riuscire fino in fondo a portare a termine un radicale mutamento, metafora di una transizione che a volte sembra non finire mai dal 1991.
NELLE FOTO: La cittadina di Fier
A Fier portiamo un dono, anzi due. Il ritratto che Luca Meola ha scattato in Italia ad Aleksandro e una delle magliette – ancora sudata – che lo stesso utilizza quando si allena sul ring. Perché Aleksandro, che è arrivato a 16 anni in Italia, si divide tra comunità, sport, studio e lavoro, quasi senza sosta, mettendocela tutta, per cambiare la sua vita. E non solo la sua.
“Il mio sogno è sfondare nel pugilato. Avevo iniziato anche in Albania, ma ho preferito partire, per avere una formazione migliore e, quando posso, aiutare la mia famiglia”, racconta Aleksandro a Luca Meola. “Quando sono in palestra, invece di sentirmi stanco, mi ricarico. E chi mi vuole bene lo sa, mi conoscono, non mollerò. Io sono arrivato in autobus, con mia madre, e ho deciso di restare. In Italia ci sono tanti ragazzi di Fier, facevo il cameriere per i matrimoni, ma non si riusciva a tirare avanti e mia madre continuava a faticare come tante mamme in Albania, che fanno una vita durissima. Ha dovuta crescerci da soli, mio padre è come se non ci fosse mai stato. Ho sempre e solo aspettato il giorno in cui avrei potuto aiutare mia madre.
Venire in Italia non era proprio un sogno, ma un progetto: mi serve il lavoro, per mantenermi e aiutare la famiglia, ma voglio continuare a fare boxe. Volevo tornare, a trovarli, ma per ora non riesco. Se mi sento cambiato? Dipende, per certi versi sì, almeno se penso a come mi impegno, a quanto sono diventato più serio, più concentrato. Sono uno che fa sempre piani per il futuro, ma poi mi perdevo, ora invece cerco di stare sempre attento e di non perdere tempo. Un po’ mi sento a casa a Milano, faccio quello che volevo e, a differenza di altri posti dove ci sono miei amici, come la Germania per esempio, in Italia ci sono più rapporti umani, le persone si godono anche la vita, non pensano solo al lavoro. Io devo raggiungere i miei obiettivi, perché anche se sono il piccolo di casa, voglio aiutare mia madre. E mio fratello”.
Aleksandro comunica una grande ammirazione, per il fratello, ma anche una grande soggezione. Eppure studia, lavora (come apprendista macellaio), si allena con costanze e ottimi risultati, facendosi già un nome nel giro della boxe dilettantistica lombarda.
Edison ha 30 anni, è grande, imponente. Edison è il fratello maggiore di Aleksandro, è molto umorale, un attimo prima prima ride e scherza, un attimo dopo sembra molto duro. “Sono partito per l’Italia in gommone, con mio padre, avevo solo nove anni. Che dirvi, è strano ricordare: in fondo a quell’età mi è sembrato di vivere un’avventura incredibile, forse solo dopo ho capito il trauma che avevo dentro, quando sono stato aiutato da professionisti davvero in gamba in Italia. Per me, oggi, quel viaggio è una poesia che ho scritto, che è diventata un libro prima e un film dopo: la mia storia, quella di cui non sono stato capace di scrivere il finale”.
Perché Edison è portatore – a sua volta – di un progetto migratorio che è iniziato bene, ma che è finito male, almeno per lui. È come, a volte, se fosse rimasto prigioniero di un’età dell’oro, che lui colloca agli anni giovanili in Puglia, nei centri di accoglienza, dove un gruppo di persone lo ha coinvolto in mille attività culturali, portandolo a fare teatro, tirando fuori il meglio da lui, compresa una conoscenza della cultura e della lingua italiana non comune. Ma poi le cose si complicano, a partire dalla figura del padre, a sua volta vittima di processi di sradicamento che sono sempre faticosi e non sempre a lieto fine. Il padre, lentamente, affonda nei suoi problemi, si perde e oggi – pur sapendo che è ancora in Italia – è lontano dalla vita di Edison, di Aleksandro, della madre e delle altre due sorelle.
“Ho dovuto rimboccarmi le maniche, ho abbandonato i miei sogni, il teatro, per darmi da fare. E ho commesso degli errori, perché dovevo pagare i debiti di mio padre e ho scelto la via più breve. Così ho perso tutto. Sono tornato qui, mentre mio fratello è andato in Italia. Io lo so che a volte sono duro con lui, lo so, ma lo faccio per il suo bene. Deve rigare dritto, non deve distrarsi, la vita è una giungla. Io devo essere il suo esempio, ma in negativo, lui deve avere una vita diversa dalla mia. Avevo tutto, o almeno mi sembrava, e ho perso tutto. Ma dovevo aiutarli, a ogni costo. Nel 2015, anche se me l’hanno detto molto dopo, non avevano i soldi per il pane. Mamma ha dovuto vendere una piccola capra per sfamare lei e Aleksandro. Andavano a raccogliere e vendere le lattine, per vivere – racconta con rabbia Edison – io voglio solo che sia consapevole, perché è cresciuto senza padre, non è facile. Io sono qui per lui, ormai a me non penso più, ma non deve fallire. E per me non significa che debba diventare campione del mondo, anzi, per me il suo titolo deve essere avere un lavoro, farsi una famiglia, quello che vuole: basta che si senta realizzato.”
Edison non completa la frase, ma sembra di sentirlo mentre dice ‘al contrario di quello che è accaduto a me’. Edison ha sbagliato, ha pagato, è stato bannato dall’Unione europea per cinque anni. Adesso fa il commesso nel negozio di suo cugino, in una Fier che di colorato ha solo i palazzi.
Data la sua posizione strategica, sull’asse principale che collega Tirana e Durazzo con il sud dell’Albania, è sempre stata al centro di reti di comunicazione e di commerci fin da tempi antichissimi, come dimostrano i molti siti archeologici della zona, è al centro di una regione ricca di risorse minerarie.
Per certi versi è ancora considerata il centro industriale più importante del paese; si producono olio, bitume, prodotti chimici, ma la ristrutturazione post-comunista e le privatizzazioni hanno lasciato segni profondi sull’occupazione. Si hanno più possibilità che altrove, ma i salari sono molto bassi, le tutele sindacali nulle e i contratti estremamente precari.
Tutta la durezza di Edison, però, si scioglie in un pianto incontrollabile quando apre il pacco: la maglietta di Aleksandro viene stretta, messa al collo, con orgoglio. E la foto è un sussulto.
“Non ci posso pensare, ha iniziato a tirare di boxe per difendersi dai bulli e guardalo ora”, dice all’improvviso, lasciando andare quell’orgoglio che sembrava contenere per principio. “Ne ha fatta di strada, non deve perdersi, non deve fare la mia fine. Anche io sono stato aiutato, ma poi mi hanno abbandonato a me stesso, non era facile crescere in fretta. Io farò tutto quello che posso per lui, ma se la deve cavare da solo. Mia madre, a 70 anni, ancora ogni giorno va nei campi per guadagnare qualcosa, lui deve avere una vita diversa”.
Ismete, la madre di Aleksandro e Edison, ci aspetta nella casa in campagna, poco fuori città. Un allevamento di tacchini e un orto rigoglioso raccontano la fatica della donna, che durante il regime era una bracciante nei campi di cotone. “Lavoravamo e basta, non ricordo altro della mia vita”, racconta, mentre prepara un the, con dignità, in una casa dove mancano tante cose. Registra un messaggio vocale per il figlio: “Sono tua madre Aleksandro, spero che tu stia bene, vai avanti, nel lavoro e nel tuo percorso”.
Sembra molto meno emotiva di Edison, lucida, come chi è abituata a faticare dalla mattina alla sera e ad avere una visione pragmatica della vita. “Aleksandro ha rischiato, è partito senza certezze, la vita è nelle sue mani. Io ho fatto quello che ho potuto, per tutti, e sta bene lui e stanno bene le loro sorelle, solo per Edison sono preoccupata, perché non si è fatto una vita”.
Inizia uno scambio, come un incontro di boxe, tra Ismete e Edison. “Lui dice che si è sacrificato per tutti, ma doveva pensare più a se stesso”, dice Ismete, mentre Edison, scherzando e abbracciandola, sottolinea che non aveva scelta.
Attorno a un progetto migratorio si muovono, e si legano, mille storie. Quelle di tutta una famiglia, a volte, altre volte quelle di solitudini. Questa è una, come tante, che finiscono bene o male, ma che si basano anche su come è possibile essere sostenuti nel proprio percorso che è difficile per tutti, ma per un ragazzo o una ragazza ancora minorenni lo è ancora di più.
È tempo di tornare da Denis, dalla sua famiglia e dai suoi amici, a Elbasan.
Io sono qui per lui, ormai a me non penso più, ma non deve fallire. E per me non significa che debba diventare campione del mondo, anzi, per me il suo titolo deve essere avere un lavoro, farsi una famiglia, quello che vuole: basta che si senta realizzato