Capitolo 2
L'arrivo: un'esplosione di abbracci, lacrime, saluti, bagagli
NELLA FOTO: Piazza Skënderbej, Tirana. Un bandiera dell’Albania svetta in mezzo alla statua del condottiero ed a un’antica moschea. Sullo sfondo edifici in costruzione che raccontano molto del processo di gentrificazione che ha vissuto negli ultimi anni la capitale albanese
Le porte scorrevoli della zona arrivi dell’aeroporto di Tirana si aprono come un palcoscenico. Un’esplosione di abbracci, lacrime, saluti, bagagli; un’eruzione di affetto intergenerazionale: uomini e donne, anziani e bambini. Uno stringersi forte, così forte, che non si coglie più alcuna differenza tra chi arriva e chi parte.
Denis si guarda intorno, sorride con gli occhi, ma è come se avesse fretta. Non ha alcun interesse per Tirana, per come è cambiata. Per lui, anche quando viveva a Vidhas, Tirana era un altrove ed è stata solo la porta di uscita, allora, come oggi è la porta di entrata.
“Non ho dormito prima della partenza, ero emozionato e temevo che qualcosa andasse storto e saltasse il viaggio! Ho pensato a tutto quello che voglio fare con la mia famiglia, con i miei amici. Ho regalini per i nonni e la mamma”, racconta Denis, che ha fretta di raggiungere i suoi. “Non avrebbe senso venire a vivere a Tirana”, commenta, lucido e determinato come al solito, “hai gli stessi problemi dell’Albania, ma la vita costa molto di più che al villaggio”. E Denis ha sempre il tono di chi – prima di parlare – ci ha pensato molto.
L’appuntamento è in quei luoghi che in Albania indicano coordinate oscure per chi non è abituato, tra un autolavaggio, una pompa di benzina e un piccolo baretto. Da Vidhas stanno arrivando il nonno e i due cugini, che ormai vivono in Germania, ma che sono tornati per le vacanze. Denis cammina avanti e indietro, si guarda attorno. Aspetta un abbraccio lungo due anni.
L’emozione è forte, profonda, per chi si ritrova e per chi osserva e racconta. I cugini si salutano appoggiando la testa l’uno all’altro, all’albanese, per il nonno un abbraccio che non cede fine in fondo alla tenerezza, ma che è abitato da occhi lucidi e sorrisi. Si brinda, si accoglie, si ringrazia chi accompagna, si saluta chi torna, ci si scambia informazioni. È tempo di lasciare Denis con la sua famiglia, agli affetti privati, per ritrovarsi dopo. Il racconto può aspettare.
Anche perché le storie, quando si tesse la trama e l’ordito di un contesto, sono molte.
Xhevahire Hyka, per tutti Xheva, ha 25 anni, lavora come mediatrice culturale a Milano, mentre prosegue i suoi studi in antropologia. Lavora nel centro CivicoZero, che tra le altre cose si occupa anche di ragazzi e ragazze minorenni che sono arrivati in Italia senza genitori. È stato naturale coinvolgerla in questo viaggio, perché Xheva porta con sé molti punti di vista: è un’operatrice sociale, è albanese, è italiana. Lei è arrivata quando aveva cinque anni, seguendo il progetto migratorio del padre; in Italia è cresciuta con la sua famiglia e le sue quattro sorelle. Xheva poteva essere Denis, Denis poteva essere Xheva.
Fin dal primo incontro, nella sede di Codici ricerca e intervento a Milano, Xheva aveva riempito la stanza con il suo sorriso e la sua personalità, con la capacità di dialogare con Denis e con tutti gli altri, mediatrice tra mondi con la grammatica dell’incontro e dell’apertura.
È originaria di Kavajë, dove il mare non c’è, ma si sente, lontano solo pochi chilometri. Tappa dell’antica via Egnatia, snodo tra il mare e le montagne, in una posizione di mediazione tra strade e identità. Kavajë, pur essendo all’interno, vive di riflesso quel boom del turismo che si è registrato in Albania negli ultimi anni con un profilo sempre più internazionale. Prima dell’arrivo della pandemia, che ha rallentato il processo di sviluppo, nel 2019 gli arrivi dall’estero erano stati pari a 6,4 milioni di visitatori, in crescita di 8 punti percentuali rispetto all’anno precedente, facendo del 2019 un altro anno di successo per il turismo. Questo genera un indotto – ristorazione, alloggi, trasporti – ingente, ma i salari sono bassi e le opportunità per coloro che lavorano nel turismo sono poche. Si tratta del classico lavoro stagionale, che non offre alcuna certezza ai giovani albanesi, che in molti casi preferiscono fare gli stagionali all’estero.
Erano sei anni che Xheva non tornava in città, dopo le vacanze estive con la famiglia, si era presa una pausa. Oggi, anni dopo, torna. Nella casa di famiglia, accolta dagli zii, e il rumore della chiave che apre la porta, sembra indicare la rottura di un sigillo nel tempo, come il suo varcare la porta sembra il passaggio tra le sue vite.
“Arrivare qui, da sola, senza trovare un’attività frenetica, il profumo del cibo e il suono delle parole, è strano. C’è un tempo che è passato, del quale resta una grande nostalgia. Quando apro questa porta, quel tempo ritorna come ricordo, quando c’erano i nonni ad accoglierci. Ma c’è ancora un abbraccio ad aspettarmi e fino a quando sarà così, sarà sempre casa”, racconta Xheva. “Qui torno bambina, a quel tempo spensierato, sereno, senza affanni. Kavajë, per me, è già diversa. In questi anni sono cambiate le strade, i negozi. Ma qui, nella via della nostra casa, accanto alla casa degli zii, sento di ritrovare casa. Kavajë, per me, sono le persone”.
Suo padre, nel 1991, è partito per l’Italia. Una migrazione altra, un altro tempo. “L’Italia non è più un mito, ma un’idea di sacrificio necessario. Parti, lasci la casa, la tua terra, la tua famiglia. Non insegui un sogno, come avveniva in passato, ma un progetto e sei consapevole che sarà faticoso. A volte mi confronto con mio padre rispetto al mio lavoro, al mio incontro quotidiano con ragazzi come Denis – racconta Xheva – e lui è felice che questi ragazzi trovino un supporto, un sostegno. Per lui era diverso: ai suoi tempi, nel centro di accoglienza, poteva andare a lavorare in nero, come fecero molti altri, o imparare la lingua. E ha scelto di studiare, come non aveva potuto fare in Albania. È anche grazie alla sua scelta che oggi io e le mie sorelle abbiamo potuto studiare”.
Xheva incontra i minorenni albanesi che arrivano in Italia in modo professionale, ma anche emotivo: lei è per loro un appiglio, quello della lingua e della cultura d’origine condivisa, che aiuta subito a sentirsi meno soli, a sentire di poter essere ascoltati.
“Senza nulla togliere ai miei colleghi, è normale che tra me e loro ci sia un rapporto speciale”, racconta Xheva. “Essere albanese mi darà sempre una chiave di accesso privilegiata, è un contatto profondo, ma io da venti anni vivo a Milano. È bello che si riconoscano in me, nella mia albanesità, ma ci sono concetti, visioni, modi di fare differenti. E questo non crea distanza, no, ma differenza si. Riconoscono la mia doppia identità. E sono importanti anche per me, mi fanno sentire fortunata, perché la mia vita è cambiata grazie al sacrificio dei miei genitori, mentre loro hanno contato solo sul loro coraggio. È una situazione diversa da quella di mio padre, perché per quelli che arrivano da minorenni c’è un sistema che accoglie, stimola, orienta. Però questo non significa che sia facile, perché se penso a un limite di questo sistema che ho potuto vedere in questi anni è quello di una grande pressione su questi ragazzi. Io ho potuto vivere le stagioni della mia vita con serenità, ancora oggi che faccio un lavoro che amo e intanto studio, non mi sento vincolata per sempre a una condizione, ma posso sognare di fare l’antropologa sul campo, in giro per il mondo. Loro no, almeno per la legge, entro i 18 anni – se non ci sono delle proroghe per motivi di studio come nel caso di Denis – devono avere un lavoro, un lavoro che deve diventare a tempo indeterminato, che gli dia accesso al permesso di soggiorno perché in grado di mantenersi da soli. Ma quanti di noi, e questa è una domanda che pongo anche a me stessa da italiana, sarebbero in grado a 18 anni di fare tutto questo? Ecco, il loro coraggio mi riempie di ammirazione, ma a volte mi chiedo quanto sia dura, per loro, questa pressione”.
Questo progetto e questo viaggio nascono anche per mettere in connessione gli sguardi di tutti gli attori coinvolti in questo sistema. Xheva non è solo la figlia di una migrazione altra che torna nel luogo d’origine, ormai mediatrice tra due culture, accompagnando Denis nel suo ritorno, ma è anche e soprattutto un’operatrice sociale.
“Avevo le mie idee e questo viaggio le ha confermate. Serve una maggiore attenzione ai fattori di vulnerabilità, alle fragilità dell’età di questi ragazzi. Io sento il privilegio di poter fare delle scelte, loro no, dopo la scelta più grande, quella di partire. E proprio per questo le loro storie raccontano di un coraggio grande, ma anche di una pressione, che bisogna considerare per essere loro d’aiuto”.
Sullo sfondo della casa di famiglia di Xheva passa, pigro, un treno. In centro c’è la bottega di barbiere di suo cugino, si fermano, si salutano. Si raccontano vite che potevano essere inverse. Lui, perso da piccolo il padre, si è messo a lavorare, decidendo di restare.
Lei gli racconta un mondo altro, che non è più idealizzato, ma che si nutre dei sacrifici di coloro che partono. Intorno, lentamente, ma inesorabilmente, la vita di Kavajë scorre e la città cambia, senza aspettare chi parte e chi torna.
Adesso è tempo di mantenere una promessa, fatta ad altri ragazzi, che non hanno avuto la fortuna di Denis e aspettano ancora il loro ritorno.
Un testo di Xhevahire Hyka
Lavoro con i minori stranieri non accompagnati (MSNA) dal 2019 come mediatrice culturale nel centro diurno CivicoZero Milano – Save the children. È stato ed è fondamentale comprendere come individuare le vulnerabilità dei beneficiari del centro e quindi essere in grado poi di individuare i bisogni e come rispondere ad essi con le risorse a disposizione. Questo tipo di lavoro mi ha permesso di comprendere l’importanza sia dei ponti culturali sia della comprensione delle culture che consideriamo altre da noi senza dare un giudizio e spogliandomi – per quanto possibile – dei miei pregiudizi e delle mie sovrastrutture.
È cruciale con questo target avere l’attenzione a non creare lo strappo culturale tra il paese di provenienza e quello di arrivo altrimenti il rischio è l’emarginazione sociale e la ghettizzazione dei gruppi etnici. Il ruolo della mediazione culturale è molto importante e allo stesso tempo complesso: si viene riconosciuti come punto di riferimento proprio per l’appartenenza etnica, ma questo rischia poi il non riconoscimento delle figure professionali altre che non fanno parte della stessa etnia. Quindi, attraverso la mediazione culturale si crea una relazione con i beneficiari, relazione che però deve fungere da collegamento alle relazioni con gli altri operatori, che agli occhi dei MSNA devono risultare altrettanto degni di fiducia.
Le aree di intervento di cui mi occupo partono dalla bassa soglia: l’individuazione dei bisogni primari, l’accoglienza e il monitoraggio delle situazioni di vulnerabilità nelle aree più fragili milanesi. Durante le uscite in strada (outreach), procedo, insieme a collegh*, al monitoraggio nelle aree di intervento e quando possibile poi all’approccio coi MSNA nel mio caso in lingua albanese. Il mio intervento, però, non si limita solo ai MSNA albanesi, in quanto l’approccio della mediazione culturale permette di entrare in relazione anche con ragazzi di cui non si conosce la lingua. Questo avviene, per esempio, attraverso una presenza costante e/o una risposta rapida a un bisogno immediato (come la consegna di alimenti). Insieme a questo affianco l’operatrice legale nei colloqui individuali e di gruppo in cui i MSNA vengono informati dei loro diritti in quanto minori e del funzionamento del sistema in modo che riescano a essere attivi nel loro percorso e sappiano riconoscere se e quando un loro diritto viene negato o violato. La mediazione in questi colloqui serve, oltre che per il fattore linguistico, a spiegare le pratiche differenti rispetto al paese di provenienza ma anche a raccogliere e rispondere, dove possibile, alle preoccupazioni che vengono sollevate dai MSNA.
Altre attività importanti che affianco sono i laboratori di italiano e i laboratori espressivi, sportivi e di arte terapia. Sono le aree in cui si lavora per permettere ai minori sia un livello di inclusione nella società italiana sia di vivere l’età che hanno. Se l’insegnamento della lingua è uno dei primi passi per poter essere inclusi e poter comunicare, i laboratori che vengono proposti servono per la socializzazione tra gruppi di adolescenti, lo svago e anche la comprensione di sé come individuo e di sé come parte di un gruppo, comprendendo quindi anche gli altri. Tutti i tipi di laboratori sono realizzati con la modalità partecipativa e non somministrati passivamente, cerchiamo sempre di coinvolgere i MSNA con una varietà di attività che toccano i vari interessi che emergono durante colloqui, chiacchierate o durante i laboratori stessi.
Qui la mediazione permette, come detto sopra, che si crei la relazione con tutti gli operatori e che i MSNA abbiamo più punti di riferimento che possano rispondere ai bisogni.La relazione con questi ragazzi e ragazze si crea sapendo ascoltare e soprattutto sape ndolo fare in qualsiasi momento. Non sono, infatti, solo i momenti strutturati quelli in cui nasce la relazione, anzi in quei momenti le difese sono anche più alte e a volte è più difficile entrare in contatto. Bisogna saper ascoltare anche mentre si sta facendo una partita a biliardino, dove tra il tifo e la competizione escono anche parti profonde, oppure durante una merenda insieme e quattro chiacchiere. Nel mio lavoro, nel mio ruolo come negli altri, ho capito che la cosa fondamentale è saper ascoltare con attenzione, con pazienza e così riuscire a cogliere le storie, le vite e i bisogni di questi ragazzi.
Io sento il privilegio di poter fare delle scelte, loro no, dopo la scelta più grande, quella di partire. E proprio per questo le loro storie raccontano di un coraggio grande, ma anche di una pressione, che bisogna considerare per essere loro d’aiuto