Capitolo 1

Denis ha gli occhi che parlano

Denis ha occhi che parlano, più di quanto faccia lui. Denis, di base, ascolta. Attentamente, curioso, soprattutto delle parole che non conosce. Denis sembra indifferente, ma è esattamente il contrario: Denis vuole essere soggetto, e non oggetto, della sua storia.

Alto, magro, Denis sembra più grande dei suoi diciotto anni. È arrivato nel 2019 in Italia, in aereo, da Tirana, come tanti suoi connazionali. È arrivato da solo, la sua famiglia è rimasta in Albania. Denis è un ragazzo in gamba.

“Avevo appena compiuto 17 anni quando sono arrivato in Italia, a Milano. Ho deciso di partire perché in Albania non vedevo un futuro, volevo aiutare la mia famiglia. Ho messo via un po’ di soldi, facendo il cameriere. E sono partito”, racconta Denis, che parla con pudore, senza mai farsi travolgere dalla sua storia. Eppure la sua è una storia che lo ha messo alla prova. Suo padre, per anni, ha viaggiato in Grecia, inseguendo qualsiasi lavoro stagionale, ma si è ammalato, è morto. E allora per Denis, che viveva con i nonni materni e con la madre e la zia, è stato necessario immaginare un altrove. “Mia madre non voleva, ma sapeva che oramai avevo deciso.”

Denis viene da Vidhas, uno dei villaggi che circondano Elbasan, nel cuore dell’Albania. Come molti altri ha fatto riferimento a quelle figure che ruotano attorno all’aeroporto – o ai porti – di Tirana, i ‘facilitatori’, che per un compenso  – Denis parla di circa 100 euro – si occupano di far passare i controlli. Da quel momento, Denis e tutti gli altri, sono soli.

“Sono arrivato a Malpensa, il mio obiettivo era raggiungere Milano”, dice Denis, con una calma e un sorriso che provano, ma non riescono, a farla sembrare una cosa semplice. “In bus dall’aeroporto sono arrivato in città, non parlavo ancora italiano, solo un po’ di inglese, mi sono affidato alle informazioni che avevo, al mio cellulare. E quando sono arrivato mi sono sentito più leggero”.

NEL VIDEO: La valle del fiume Shkumbini nel cuore dell’Albania. Qui si trova il villaggio di Vidash dove Denis è nato e cresciuto

Denis si presenta alle istituzioni locali, sa che deve farlo, radio migrante resta la principale fonte di informazioni per chi parte. Non c’è posto, a Milano, viene mandato a Genova. “Non stavo bene, non mi piaceva il posto. Sono scappato, ricordo che era un sabato, il giorno in cui il prete di quella comunità ci mandava in libera uscita, con dieci euro – ricorda – Ho usato quei soldi per raggiungere di nuovo Milano, perché non ero felice, mi sentivo chiuso, dovevamo lavorare nell’orto, ma io volevo studiare. Son partito per cambiare la mia vita, mi sembrava di perdere tempo. Il primo sabato è andata male, il secondo è andata bene, grazie all’aiuto di un albanese. Mi sono presentato dai carabinieri, ma era tardi ormai, se ne parlava il giorno dopo. E allora ho dormito sotto un albero”.

Denis dice che non ha avuto paura, solo di aver avuto un po’ freddo, con i suoi jeans e un giubbino, ma ne parla in fretta, come a consegnare al passato quella notte, perché lui è un ragazzo che parla più di futuro. Non aveva documenti, il passaporto era rimasto a Genova. Denis, dopo la notte davanti alla caserma di Gratosoglio, arriva alla Casa della solidarietà Saponaro, a Milano, dove resta per cinque mesi. E inizia la scuola, studiava. Quello che – fin dall’inizio – desiderava.

Denis ritratto in un parchetto davanti alla caserma di Gratosoglio, nello stesso identico posto dove, arrivato a Milano due anni fa passò la notte

“Non racconto mai le cose brutte, a casa. E di quella notte ne ho parlato molto tempo dopo alla mia famiglia. Poi mi hanno trasferito e, dopo il passaggio in un altro centro, per sette mesi, sono arrivato da Namasté, dove sono adesso. Non è facile, bisogna ambientarsi, tra di noi e con gli operatori. E con gli altri ragazzi, spesso, non racconti neanche la tua storia, perché ognuno ha la sua, ma tutti vogliono cambiare la propria vita”, spiega Denis, che ricorda in fretta, come descrivesse una procedura necessaria per seguire il suo progetto. Studiare, trovare un lavoro, aiutare la sua famiglia. E non racconta mai il suo viaggio come una storia ‘straordinaria’, ha la grammatica della normalità, ma gli occhi magnetici rivelano anche il suo coraggio e la sua determinazione.

Denis è arrivato a Milano, qual è la situazione in Lombardia? Come detto, è la quarta regione per numero di minori che viaggiano da soli accolti. E il posto di arrivo in Italia, per un ragazzo come Denis o per una ragazza, può fare la differenza per la sua vita.

La comunità Educativa "Casa Annunciata" a Como, gestita dalla Fondazione Somaschi, accoglie ragazzi minorenni di varie provenienze

“L’elemento territorialità, in Italia, è rilevante: la normativa è la stessa a livello nazionale, ma a seconda del territorio ci sono caratteristiche differenti. La norma non è applicata in modo omogeneo, ogni regione ha le sue peculiarità. Nell’Italia settentrionale, ma anche fino a Toscana, Emilia-Romagna e parte del Lazio, si è sempre avuta una forte presenza dell’ente locale. Una regia vive dell’ente pubblico, che non solo prende in carico con i servizi sociali i minori stranieri non accompagnati, ma s’impegna per elaborare e mettere in atto progetti di accoglienza, anche nell’ambito del vecchio sistema SPRAR e attuale SAI”, spiega Barbara Lucchesi, assistente sociale, Coordinatrice Tecnico Metodologica presso il Comune di Milano. “Paradossalmente, essendo la zona più interessata dal fenomeno, nell’Italia centro – meridionale la situazione è stata caratterizzata dall’arrivo caotico di ragazzi e ragazze che viaggiano da soli, magari in piccoli comuni dove avvengono gli sbarchi, che hanno pochissimi mezzi e personale dei servizi sociali risicato, sopraffatto da troppo lavoro e non dedicato al tema MSNA. Questa situazione generava una grande delega al privato sociale – i cosiddetti enti gestori – con situazioni a volte positive, ma a in altri casi molto discutibili. Centri troppo grandi, promiscuità adulti – minori, impossibilità di gestione individuale.”

Ospiti della comunità aspettano l'arrivo della cena

Dopo il lavoro di varie associazioni e varie fondazioni, è nata la Legge Zampa, per rimediare a questa differenza territoriale e dare delle linee guida. Ha aperto molti fronti, che hanno dato risultati, ma con pochi strumenti pratici. Dal 2017 aspettiamo i decreti attuativi, mai arrivati, che potrebbero togliere le interpretazioni soggettive.

Rispetto alla Lombardia viviamo una realtà di servizi sociali presenti, di enti del terzo settore molto vivaci, propositivi, che da tempo lavorano in co-progettazione con il pubblico. Da tempo qui non esiste più la tipologia dell’ente gestore che eroga servizi all’ente locale, ma un sistema di co-progettazione e co-gestione. Rispetto alla nostra esperienza, questo è un modello vincente e tutti i servizi per i minori stranieri non accompagnati in Lombardia sono orientati in questo senso. L’emanazione della Legge Zampa ci ha spinti a riorganizzarci per accogliere i ragazzi, modulando i servizi sui loro bisogni, e non il contrario, evitando la replica della frammentazione che esiste sul territorio italiano.  Avere un servizio dove fossero concentrati gli interventi previsti dalla legge, in particolare per i primi 30 giorni, che la norma individua come quelli della prima accoglienza, creando il Centro Servizi Minori Stranieri Non Accompagnati di via Zendrini, a Milano, con un bando pubblico di coinvolgimento di realtà del privato sociale, che è stato vinto da Save The Children, Farsi Prossimo Onlus e Spazio Aperto Servizi. Un percorso di co-progettazione, con una divisione dei compiti, tra servizi (cinque assistenti sociali e un coordinatore del privato), dodici posti per l’accoglienza e le attività previste, ad esempio l’orientamento legale, sostegno psicologico e screening di eventuale disagio mentale – due psicologhe – per muoversi in tempo e prima di eventuali fasi critiche. Viene garantito anche il diritto all’istruzione, con la presenza di insegnanti. Molti di loro arrivano ‘grandi’, magari 17enni, ed è importantissimo per il loro futuro avere le certificazioni dei corsi di alfabetizzazione e di conoscenza della lingua italiana, che sarà importante al momento di convertire il permesso di soggiorno una volta diventati adulti. C’è anche l’accertamento dell’età, come previsto dalla legge, e il Comune di Milano ha elaborato un protocollo con tutte le realtà che operano nel territorio: Procura Minori e Tribunale, Questura e Polizia locale, Carabinieri e Prefettura, coinvolgendo anche l’Università degli Studi di Milano, con il laboratorio LABANOF, laboratorio di medicina legale diretto da Cristina Cattaneo, che si occupa materialmente – in modo non invasivo grazie a una tecnologia all’avanguardia – di determinare l’età dei ragazzi, nel rispetto dei parametri internazionali, superando il mero esame delle dimensioni del polso, ma arrivando all’ortopantomografia (esame delle radici dei denti), in alcuni casi arrivando alla TAC o alla radiografia della clavicola, oltre alla visita del medico legale generale, per lo sviluppo sessuale che per avere un quadro dell’ambiente di provenienza rispetto alla crescita, alimentazione compresa. Un approccio multidisciplinare per ridurre al minimo le possibilità di errore. Al tempo stesso il laboratorio all’interno del centro si occupa dell’eventuale accertamento di lesioni dovute a tortura, che riguarda in particolare quelli tra i minori che richiedono protezione internazionale, a sua tutela e per verifica di coerenza del racconto. Si produce un rapporto che viene inoltrato al Tribunale dei minori che è così in possesso di tutte le informazioni utili a prendere una decisione”.

Un ragazzo nei corridori della comunità

Tutto bene, quindi? O ci sono dei margini di miglioramento?

“Andrebbe rinforzato il sistema SAI, a partire dall’ampliamento dei 175 posti attivi per l’accoglienza, che sono molto pochi se paragonati alle prese in carico annuali che si aggirano tra gli  800 e i 1000 mille ragazzi. Questo numero non riesce a far fronte al flusso, ma come approccio è il migliore, perché è integrato, ha linee guida uniche nazionali e non si sgarra, grazie a criteri rigidi per l’accesso e a buoni parametri di controllo del lavoro svolto sul territorio. E non si dimentichi che è tutto a carico dello Stato, cosa che permette agli enti locali di non andare in crisi, perché la retta più bassa si aggira sui 70, 75 euro al giorno, una spesa non indifferente. L’ente locale può respirare e investire le sue risorse su altro, in un sistema trasversale al SAI, con servizi aggiuntivi, formazione e borse lavoro ad esempio, in generale lavorando sull’integrazione, in vista dell’età adulta. Questo sistema garantisce standard alti di qualità, ma va consolidato evitando che si creino differenti interpretazioni o da parte degli attori istituzionali coinvolti o degli enti locali. Non è accetabile che un minore straniero non accompagnato viva esperienze diverse in città diverse. Un altro punto sul quale bisogna assolutamente lavorare è il rapporto con le autorità consolari dei paesi d’origine dei ragazzi. Non si può sprecare un percorso, magari lungo anni, perché poi non vengono forniti gli adeguati documenti a una persona che è un cittadino o cittadina di quel paese, perché questo vanifica gli sforzi e costringe le persone a restare in un ambito non regolarizzato”, conclude Barbara Lucchesi.

Ogni piano della comunità accoglie circa una decina di ragazzi

In questo contesto si inserisce il progetto Di’ Tu Diritti da tutelare.

Di’ Tu è un progetto che promuove l’integrazione dei minori stranieri non accompagnati sul territorio della Regione Lombardia. Il progetto sostiene l’emersione e la valorizzazione del punto di vista dei ragazzi e delle ragazze su percorsi e politiche di accoglienza, promuovendo il diritto all’ascolto e alla partecipazione.

Codici ricerca e intervento ha condotto gruppi di consultazione e spazi di confronto insieme a chi vive, o ha vissuto, l’esperienza di migrare senza i genitori o la famiglia in generale. L’obiettivo è stato quello di scrivere le Linee guida per la buona accoglienza e integrazione sul territorio.

Obiettivi del progetto Di’ Tu sono l’aumento del numero di minori che hanno accesso alla tutela volontaria di Regione Lombardia, l’accrescimento del capitale relazionale di tutti i soggetti coinvolti nel percorsi di inclusione, la riduzione dei rischi associati all’uscita dai percorsi di accoglienza e integrazione, la modellizzazione di standard omogenei di protezione e tutela dei minori su tutto il territorio regionale.

Di’ tu Diritti da tutelare è stato co-finanziato dall’Unione Europea – Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI) ha coinvolto il Ministero dell’Interno e ha visto – come capofila – la Città Metropolitana di Milano.

“Questo progetto nasce dall’idea di creare degli spazi di ricerca, di racconto di sé e degli altri e soprattutto di dialogo strutturato tra i tanti soggetti che hanno a che fare con le carriere, le biografie e le storie dei cosiddetti minori stranieri non accompagnati – spiega Andrea Rampini, ricercatore e operatore sociale di Codici, che si occupa di metodi partecipativi e cooperazione e che negli ultimi anni ha approfondito tematiche connesse alle migrazioni internazionali, alle politiche giovanili e al genere –  Il primo obiettivo era quello di far emergere il punto di vista dei ragazzi e delle ragazze che sono arrivati in Italia da soli e poi di mettersi in ascolto di tutte le persone che stanno attorno a loro: operatori del sistema dell’accoglienza, assistenti sociali, tutrici e tutori volontari, i cosiddetti policy maker, referenti delle istituzioni e degli enti locali. E poi l’opportunità di far emergere i punti di vista di coloro che stanno attorno ai ragazzi e alle ragazze nei loro contesti di origine: madri, padri, nonni, amici.  Tutti quelli che popolano le loro storie. Ascoltare per una possibile ricomposizione dei punti di vista in gioco, che sono molteplici. È emerso subito come parlare di MSNA significa parlare di tante storie e allo stesso tempo di una stessa storia, raccontata in mille modi differenti, con molte versioni, spesso discordanti. C’è la versione degli operatori e delle operatrici del sistema di accoglienza, che sono portati a guardare i ragazzi e le ragazze con la lente di ingrandimento della tutela minori e dei loro diritti, ma che in alcuni casi corrono il rischio di oggettivizzare i ragazzi, o di infantilizzarli; in altri casi si corre il rischio di passare in fretta da un periodo di ‘troppo pieno’, cioè quello degli under 18 (che sono accompagnati, curati e sostenuti) a un periodo di ‘troppo vuoto, quello degli over 18, che perdono di colpo tutte le tutele. Non mancano in Italia quelli che guardano a questi ragazzi come a dei ‘furbetti’, o addirittura come degli approfittatori  del sistema del welfare italiano, o come vittime o parte attiva di un sistema di sfruttamento che muove minori da un luogo all’altro. Fino ad arrivare alle versioni più feroci, quelle xenofobe e razziste, di coloro che i ragazzi albanesi o egiziani non volevano vederli 30 anni fa e continuano a non volerli vedere. E poi c’è anche la versione dei paesi d’origine, che è complessa, tra coloro che guardano a questi ragazzi come le nuove leve di quella migrazione che con la fatica e il lavoro ha scritto una storia a suo modo eroica e chi li vede come dei traditori, che vanno via, e non contribuiscono alla crescita del loro paese. A queste si sommano, ovviamente, le versioni dei protagonisti, ragazzi e ragazze, che sono complesse anche loro, piene di buchi, di omissioni: quello che non racconterai a tua madre, ai nonni, agli amici. Quello che non vogliono che sappiano le persone a cui tengono, perché si possono sentire giudicati o per non far preoccupare nessuno. Tutte le versioni in ballo sono degne d’ascolto, senza cercare una verità superiore o definitiva, e tutte compongono un mosaico che definisce un ‘tenere insieme’ le persone e le reti sociali, relazionali e affettive dei ragazzi e delle ragazze. Decidere che una verità è più importante dell’altra, che una versione è dominante, non semplifica le cose, anzi, aggiunge lacerazioni a questi ragazzi e a queste ragazze. Una delle grandi distorsioni che abbiamo incontrato in questo progetto è che la narrazione di un minore straniero non accompagnato prevede o che le famiglie siano assolutamente presenti, protagoniste e responsabili, o che non possano essere coinvolte nei progetti di vita di questi ragazzi, che debbono stare lontane. Per i sistemi integrati le vie di mezzo non possono esistere, perché creano ambiguità, e invece forse mettersi attorno a un tavolo, trovando spazi di dialogo protetto, accompagnato e strutturato, può servire proprio a quello: attorno a ogni singola storia costruire cornici narrative che possono essere davvero coerenti e di accompagnamento rispetto alle scelte, alle vite, agli ostacoli che questi progetti di crescita e di libertà possono incontrare”, spiega Rampini.

Due ragazzi ospiti della comunità

I minori stranieri non accompagnati, in Italia e in Europa, vengono definiti. Sempre. Dalle norme, dalle convenzioni internazionali, dalle organizzazioni non governative e dai media. Vengono sempre raccontati, con narrazioni positive o negative, ma come oggetto della storia, non come soggetto. Per affrontare il tema, per iniziare, è tempo di dare voce, di ascoltare e soprattutto di facilitare dei processi di auto-racconto, per restituire a ciascuno il diritto a raccontare la propria storia, da soggetti e non da oggetti del racconto.

“Abbiamo attivato due laboratori partecipati. Il primo, che è partito all’inizio del progetto, nel 2018, è stato un laboratorio residenziale. Un lavoro di gruppo con circa 15 ragazzi – presso l’associazione Olinda di Milano – dove prima ci siamo confrontati su quanto era emerso dal lavoro dei ricercatori di Codici con oltre 50 minori stranieri non accompagnati, lavorando a sintetizzare alcuni concetti chiave, riproponendoli in forma di manifesti e discutendo con loro su quanto e come si rivedessero nelle definizioni date dagli altri ragazzi”, racconta Camilla Pin Montagnana, attivista culturale, la sua ricerca si focalizza sulla costruzione di immaginari e sui processi di trasformazione sociale. “Una seconda fase è stata quella di chiedere a loro cosa ne pensassero della definizione – minori stranieri non accompagnati – con la quale vengono definiti. Abbiamo creato tavoli che si occupavano di ciascuna parola che costituiva questa definizione e sono emersi elementi molto importanti di riflessione, soprattutto sulla parola ‘stranieri’, e racconti di forte discriminazione legati a questa definizione. Abbiamo lavorato anche a sviluppare l’acronimo, MNSA, e sono emersi anche qui degli stimoli molto interessanti. C’è stata un’altra parte di questo laboratorio esperienziale, legato alla pittura, con una tela di dodici metri: abbiamo disegnato sulla proiezione di una serie di immagini.

La seconda parte è stata un laboratorio di fotografia con Luca Meola – purtroppo online a causa del Covid – e i ragazzi hanno partecipato in maniera attiva, coinvolti, è stato molto bello. Erano incuriositi dall’apprendere le tecniche fotografiche, anche per la post produzione. Noi ci siamo messi in discussione, con loro, rivedendo una prima parte del laboratorio che proponeva dei lavori fotografici che non coinvolgevano il loro immaginario; io e Luca abbiamo lavorato a trovare dei progetti legati in qualche modo alle nazionalità di origine dei ragazzi e a quel punto il laboratorio ha preso una piega molto più interessante. Abbiamo lavorato a conoscerli meglio, chiedendo di raccontarci le loro preferenze, anche sui social, da YouTube a Instagram, per capire quali fossero i loro gusti e i loro interessi. Abbiamo, infine, chiesto loro di elaborare un loro racconto fotografico, seguendo il tratto dell’autonarrazione: alcuni hanno raccontato il viaggio, per esempio la Balkan Route, oppure temi importanti, come la violenza sulle donne, o la vita quotidiana. Lavori diversi, tecniche diverse, qualcuno ha deciso di scrivere per raccontare una foto. È stato molto interessante vedere come siano emersi elementi che non sono quelli classici quando si parla di minori stranieri non accompagnati. Sono ragazzi, hanno vite complesse, hanno una cultura di riferimento, ma hanno anche voglia di inserirsi e la loro narrazione è completamente differente dalla narrazione dominante”.

Il laboratorio di fotografia

Una ricerca partecipata non si concede il lusso della selezione a priori delle voci di interesse, le ascolta tutte, le connette, in modo ragionato, cerca sintesi e propone letture. Come dai laboratori  – e dalle interviste dei ricercatori  – di Codici è emersa la polifonia degli attori e dei punti di vista in gioco nel mondo dei minori stranieri non accompagnati ed è emersa la necessità di dar voce a loro stessi, riconoscendo il diritto a essere soggetti attivi del proprio percorso, si è delineata anche una cesura, una distanza. Quella dai contesti di origine, per certi versi, e dalle famiglie, per altri.

“Andare sul campo è fondamentale: mancherebbe un pezzo di questa storia, si rischierebbe di non capire quello che accade ai ragazzi e come lo raccontano”, spiega Rampini.  “Il tessuto che abbiamo di fronte è pieno di nodi, buchi, lacerazioni. È normale che sia così, ma dobbiamo provare a capire come si formano questi vuoti, individuando aspetti da cancellare, da enfatizzare, o da valorizzare. Tutte le versioni hanno pari dignità, ed è fondamentale far emergere la polifonia di questi punti di vista. Altrimenti il rischio che corriamo è di schiacchiarci su una visione unica: pietista o espulsiva, del ragazzo approfittatore o della ragazzo vittima, del genitore cattivo o assente. Bisogna ricomporre la complessità”.

Nel suo progetto personale Magdy ha selezionato degli scatti realizzati lungo la Balkan Route

La naturale evoluzione di questo progetto, e delle valutazioni che ha attivato, è stata quella di una missione sul campo. Un gruppo di lavoro che potesse avvicinare il lavoro di ricerca a quello di reportage, uno sguardo giornalistico e di verifica che potesse, con linguaggi diversi, provare ad abitare quei buchi che racconta Andrea Rampini con le storie. Dei ragazzi, delle loro città, delle loro relazioni.

Il compagno di questo viaggio è Denis. Perché lui? Non è facile, in un percorso come il suo, individuare il momento giusto per tornare a casa per la prima volta.

Alcuni non sono pronti, altri non hanno ancora i documenti in regola, altri ancora hanno attività in corso, o vivono una fase del loro rapporto con la famiglia e con il contesto di origine che non permette di tornare con serenità. Ci sono ragazzi e ragazze che sono partiti perché avevano rapporti complessi con le proprie origini e magari altri ancora che quel ritorno non volevano condividerlo con un gruppo di lavoro.

Senza dimenticare, inoltre, l’epoca che si vive, partendo dalla possibilità logistica di organizzare questo viaggio ai tempi delle limitazioni della pandemia. E infine il contesto.

Una macchina rossa parcheggiata su un muretto in un luogo imprecisato nel cuore dell'Albania

“Abbiamo scelto l’Albania per tante ragione: ci interessava prima di tutto capire come un fenomeno ancora numericamente importante per i minori si inserisca storicamente su un fenomeno migratorio che non è recente e non è emergenziale. Non accade in tutte le dinamiche migratorie che minori – con storie anche avventurose – migrino da soli, da contesti dove c’è stata una forte migrazione nelle generazioni precedenti”, spiega Rampini. “L’Albania conferma come i flussi migratori siano un continuo divenire, mutano, non sono mai uguali a loro stessi e non può essere letto come fosse uguale agli anni Novanta. Allo stesso tempo rischiamo di pensare alla categoria dei minori non accompagnati e alle migrazioni di minori come qualcosa di omogeneo. Emigrare dall’Albania oggi non è la stessa cosa di chi partiva in passato e non è la stessa situazione di chi parte dall’Egitto o dal Kosovo o da altri paesi. In questo senso le storie dei minori albanesi sono fondamentali e raccontano il contesto europeo che cambia e i mutamenti delle reti  socio – economiche e dei sistemi normativi che producano delle migrazioni che sono nuove”.

Andava cercato un incastro, un equilibrio, tra la fase di vita che questi ragazzi attraversano e la necessità di essere loro compagni di viaggio, che osservano e raccontano.

Denis, tra gli altri, viveva il momento giusto per questo ritorno. E di alcuni abbiamo portato con noi una fotografia, con il compito di consegnarla a chi è rimasto a casa.

Allora è tempo di partire: destinazione Albania. Sarà un viaggio di ricerca, ma sarà anche un ritorno. Perché in questo viaggio servono tutti i punti di vista, partendo da quello più importante, quello di Denis. Che dopo due anni, per la prima volta, tornerà a casa.

“Ho voglia di riabbracciare la mia famiglia, mia madre, i nonni, le zie. E so già che mi faranno trovare il baklava, il mio dolce preferito! Incontrerò anche i miei cugini, che ormai vivono in Germania. E tornerò a casa, per ritrovare quello che ho lasciato”, racconta Denis, che ormai chiama casa due posti distanti e differenti.

Veduta aerea di Tirana, città da cui Denis è partito e da cui comincia il nostro viaggio esplorativo

Questo progetto nasce dall’idea di creare degli spazi di ricerca, di racconto di sé e degli altri e soprattutto di dialogo strutturato tra i tanti soggetti che hanno a che fare con le carriere, le biografie e le storie dei cosiddetti minori stranieri non accompagnati

Andrea Rampini, ricercatore e operatore sociale di Codici

Capitolo 2

Un'esplosione di abbracci, lacrime, saluti, bagagli

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