Comando dei Carabinieri, Stazione Milano Gratosoglio: La Questura, come dice Denis. Ci fermiamo al parchetto che costeggia via dei Missaglia per ripercorrere quella famosa notte di strada, la partenza da Elbasan, la ricerca di un accompagnatore a Tirana, la sventurata tappa di Genova e l’arrivo a Milano. La Stazione Centrale, il Comando, il collocamento in pronto intervento e poi nella nuova comunità. “A nessuno interessano le storie degli altri. Quando incontri un ragazzo albanese, la prima cosa che ti chiede è: fumi?”.
[2 giugno 2021 – Milano, Piazzale Abbiategrasso]
Racconta della partenza e dell’aeroporto di Tirana. È facile capire chi sono le persone che accompagnano i ragazzini, sono loro a farsi avanti. È gente che fa lavoro nero, così si dice in Albania. Il primo aveva chiesto una cifra troppo alta, e allora era passato al secondo e poi al terzo. L’uomo aveva la barba lunga e indossava un cappello, si è presentato con un nome sicuramente falso e non gli ha praticamente rivolto la parola. Neanche in volo, nemmeno all’arrivo, quando lo ha solo salutato a Malpensa, dove le loro strade si sono separate per sempre. Difficile giudicare chi fa questo lavoro, dice. Da un lato è riconoscente, senza di loro non sarebbe potuto arrivare in Italia. D’altra parte non vorrebbe mai fare una cosa simile: è illegale, mette in pericolo i ragazzi che potrebbero vivere qualcosa di pericoloso e finire addirittura in altre città. Lui però non aveva paura, stava bene attento a quello che succedeva, aveva pure controllato la destinazione prima di salire sull’aereo.
[Appunti di viaggio – passaggi]
Il sole tramonta e la rotonda sulla statale per Tirana è illuminata dalle luci delle stazioni di servizio. Una bambina dall’altra parte della strada gira con un monopattino rosa a tre ruote attorno alle pompe di benzina. Denis si sporge e guarda lontano fino a quanto riesce. Aspettiamo i cugini che lo stanno venendo a prendere all’autolavaggio dove ci siamo fermati.
“Ha detto golf, è possibile? È una macchina, giusto?”. Con il volto coperto dalla mascherina sono i movimenti a rivelare l’impazienza che cresce. In mano tiene una cartellina trasparente piegata in due, che contiene un bel pezzo di vita e le prime tracce che sta lasciando questa avventura. Passaporto, carta di identità albanese, carta di identità italiana. Il biglietto aereo, un quaderno per scrivere, qualche copia avanzata dell’autocertificazione per l’espatrio – comprovate esigenze lavorative – e il certificato con l’esito negativo del tampone fatto proprio ieri a San Siro.
La Golf, con una carrozzeria color grigio metallizzato appena lucidata, è targata Germania. Lui ripara gli occhi dalla luce dei fari per riuscire a vedere chi c’è dentro, e in pochi secondi si ritrova tra le braccia del nonno. Indossa una giacca marrone di panno, camicia e pantaloni in tinta, gli occhi lucidi e un sorriso enorme. China il capo e ci stringe le mani, Denis ci spiega che vede molto poco e solo da un occhio, ha appena fatto un’operazione. Guarda emozionato i giovani cugini, cresciuti insieme e poi partiti, che ora si ritrovano e si abbracciano. Dopo due anni si stringono le mani, ridono, si salutano poggiando capo contro capo. Hanno guidato da Norimberga a Bari fermandosi solo mezz’ora prima di imbarcarsi. Erano partiti molti anni prima e ora sono tornati per sistemare i documenti e fare visita a nonni e zii.
Il nonno propone caffè e raki e fa gli onori di casa al bar dell’autolavaggio. Replica sorrisi, inchini e strette di mano. Ci offre il suo tabacco. È forte, dice. Prima di brindare si alza dalla sedia e si sporge verso ognuno di noi. Beve e subito chiede se vogliamo caffè, se vogliamo altra raki, se vogliamo altre sigarette. Lui ha iniziato a fumare a quarant’anni, e ora ne ha ottanta. Faceva il commesso in un negozio di alimentari.
“Chiede come stanno le nostre famiglie” – traduce. E aggiunge: “è un modo di dire Albanese”. “Chiede se avete figli”. “Dice che se parlasse italiano vorrebbe dirvi un sacco di cose”.
I cugini di Denis vivono a Norimberga con i genitori e con la moglie del più grande, nata al villaggio e cresciuta a Bologna. Grazie a lei ha imparato un po’ di italiano, e usa le parole che conosce per invitarci a mangiare al ristorante, per parlarci del biliardo, per commentare il traffico caotico di Bari, per raccontarci del suo lavoro di gessista e degli ottimi guadagni tedeschi, per mostrarci le foto di alcuni lavori di coibentazione fatti a regola d’arte. Né loro né Denis immaginano di tornare a Elbasan, spiegano senza esitazione.
Viene il momento di salutarsi e il nonno paga per tutti, respingendo le proteste dei ragazzi. Avevano annunciato che avrebbero pagato loro perché erano appena tornati dalla Germania, ma il nonno non ne vuole sapere. Si china a baciarci le mani e ci saluta con affetto, raccomandandoci di tornare presto a cena.
[5 giugno 2021 – Autolavaggio di Bradashesh]
“Hanno lasciato i telefoni a casa per l’esame. Ora come faccio a chiamarli? faccio qualche prova, qualcuno l’avrà portato.” Oggi a Elbasan ci sono gli esami di letteratura albanese per chi frequenta l’ultimo anno delle scuole superiori. Settimana scorsa hanno dato l’esame di inglese, tra qualche giorno toccherà a matematica, poi basta. Per qualcuno le vacanze, per altri il lavoro estivo, da settembre una nuova vita per tutti e tutte. Sotto il platano secolare di Elbasan ci raggiungono i compagni e le compagne con cui Denis è cresciuto. Tra di loro c’è anche una cugina, che appena lo vede gli corre incontro e lo abbraccia forte, ridendo emozionata.
A ciascuno viene dedicato un saluto, una stretta di mano, un abbraccio, una pacca affettuosa, qualche attimo di contatto, fronte contro fronte. Nel gruppo ci sono amiche e amici di infanzia, ma anche compagni conosciuti solo durante le scuole superiori pochi anni prima di partire. Vivono a Vidhas, a Paper e nei villaggi circostanti, ma oggi sono tutti in città per il grande giorno degli esami. Una prova dura, quella di letteratura. L’analisi di un testo, una ventina di domande a risposta chiusa e poi un breve saggio. Non così dura come la prova di inglese, spiegano sorridendo un po’ imbarazzati.
Chiacchiere di strada, tra un sorriso e un abbraccio in più, che fanno emergere i tanti futuri che questo gruppo di coscritti sta immaginando. Molti lavoreranno durante l’estate. Qualcuno e qualcuna a Elbasan, in un bar o in un ristorante. Oppure sulla costa, in spiaggia o in un albergo. Qualcuno andrà in Grecia, nei campi, per guadagnare qualcosa in più. A settembre, per la prima volta, le loro strade si separeranno nettamente. Qualcuno andrà a studiare medicina o infermeria, forse a Elbasan o forse a Tirana, anche se lì è più difficile entrare in graduatoria. Nella capitale c’è anche il problema dell’affitto, anche se condividendo la casa con altre ragazze le spese possono diventare sostenibili. C’è chi vuole fare la maestra, chi la poliziotta, chi smetterà di studiare –lo racconta ridendo, la scuola non gli era mai piaciuta- e andrà a fare il meccanico. Pochi lasceranno l’Albania, come Leo che tra poco raggiungerà il fratello in Turchia.
Mentre chiacchieriamo passa tra di noi Dan, un bambino che gironzola nella piazza, e alcune ragazze gli regalano qualche moneta. Il gruppo lo incuriosisce, si mette ad ascoltare e ci offre tutte le parole inglesi che conosce. Si chiama Dan, “Dan per Ramadan”, spiega. Sfoggia anche qualche frase in tedesco perché è stato qualche tempo in Germania, in una città con case e palazzi altissimi.
Solo una delle compagne di Denis ha un fratello in Italia. È partito a sedici anni ed è andato a Bologna, tipo per andare a scuola. “Sì, insomma aveva sedici anni ed è andato in Italia a scuola, più o meno come Denis…”, comincia a raccontare mescolando inglese e albanese, ma è arrivato il momento della foto di gruppo. Le amiche la trascinano per mettersi in posa e insieme ai compagni sfoggiano i sorrisi luminosi dell’inizio dell’estate.
[7 giugno 2021 – Platano secolare di Elbasan]
Prima arriva un cesto di caramelle e cioccolatini, subito dopo sigarette, caffè turco, succo di frutta, biscotti e raki. Quella artigianale, che il nonno distilla in casa ogni autunno con i nipoti ad aiutarlo. Raki genuina, di quelle che anche i dottori dicono che bisognerebbe berne un bicchiere al giorno – ci spiega. Non quelle del supermercato, ma nemmeno quella fatta dal vicino o dal fratello: bisogna bere il raki fatto con le proprie mani. Attorno al tavolo quattro sedie per gli uomini, il divano è riservato alle donne. Appoggiata a una parete sta una macchina per cucire che la mamma utilizzava quando ci vedeva un po’ meglio, mentre il grande camino è stato eliminato. Peggiorava le infiltrazioni, alla fine pioveva in casa, e allora avevano dovuto eliminarlo e tenersi tutto il freddo.
“Non vedevamo l’ora che partisse. Certo c’era un po’ di dispiacere, ma era giusto che se ne andasse da qui”.
Il nonno ripensa agli anni del collettivismo, al suo impiego nel kombinat e a quella che definisce una grande menzogna: tante promesse e tante illusioni, ma poi ai lavoratori una pensione da fame, mentre le alte sfere ne erano uscite arricchite. Con due o tre figli maschi sarebbe certamente partito per cercare fortuna altrove, ma nella sua situazione – con un maschio sistemato e tre femmine con mille problemi – non aveva trovato le forze per farlo. Le donne presenti, le figlie di cui parla, ascoltano attente e abbassano compostamente gli occhi lucidi senza fare alcun commento. A volte bisbigliano qualcosa, si guardano o fanno gesti impercettibili, una di loro viene mandata a comprare un altro pacchetto di Winston.
Negli ultimi venti anni la famiglia aveva dovuto arrangiarsi con i pochi soldi che arrivavano dallo stato – 20.000 leke al mese, poco più di 150 euro oggi – e con un fazzoletto di terra piccolissimo, perché alla caduta del regime le terre dovevano essere distribuite anche a chi era arrivato al kombinat da altre province. Terra sempre secca, con poca acqua per innaffiarla e poche braccia per lavorarla, soprattutto da quando il marito della figlia primogenita era morto all’improvviso. In questa situazione – si agita il nonno tra un altro bicchiere e una sigaretta- i giovani non possono che partire. Dopo oltre trent’anni dalla fine del regime qui non c’è speranza, è tutto come prima. Restare non ha senso e allora era servito qualche ulteriore sacrificio economico per aiutarlo ad andarsene. Era la cosa giusta da fare, l’unica sensata.
Il nipote ci guarda teso, ci spiega in italiano che il nonno – che lui chiama papà- in realtà non sa quasi nulla di come è andato il suo viaggio e di quanto è costato davvero. La famiglia aveva risparmiato poco meno di cinquanta euro, e lui gli aveva detto che sarebbero sicuramente bastati. Lo spiega chiaramente e con pochissime parole, ci raccomanda di non dire nulla di troppo.
“Non volevo che partisse. Avevo solo lui, ero malata e non c’era nessuno ad aiutarmi”.
Quando il nonno si allontana è la mamma ad aggiungere sfumature a questo racconto. Alza il capo, prende coraggio e aumenta poco a poco il volume della sua voce. Ricorda una giovinezza faticosa, nessuna possibilità di studiare né di emigrare, e poi i tanti problemi di salute. Si era sposata molto tardi, con un uomo molto più grande di lei, e quando era nato il suo primo e unico figlio sentiva di non avere quasi nulla da dargli. Ricorda quanto fosse bravo a scuola, delle lodi degli insegnanti, delle pagelle sempre eccellenti che ancora decorano la stanza per ricevere gli ospiti. I genitori dei compagni li premiavano per i bei voti, lei invece non sapeva cosa dargli, non aveva niente da offrire se non la sua anima. Lei non voleva lasciarlo andare. Aveva paura che gli accadessero cose brutte, aveva paura delle cattive compagnie, aveva paura di non farcela da sola, e sapeva di dovere lasciare la casa per tornare con i nonni e la sorella. Ma lui aveva insistito, era partito, ed ora se lo ritrovava di fronte. Più alto, più grande, sempre bravo, sempre studioso. Ora – dice la mamma – deve dedicarsi allo studio, deve prendersi cura di sé, deve pensare al proprio futuro. È giusto che sia partito ed è una gioia vederlo sereno e pieno di energia. Se troverà una ragazza italiana saremo felici –aggiunge ridendo insieme alla sorella- perché le persone sono tutte uguali, la nazionalità non conta. E prima o poi lo raggiungerà in Italia, quando i tempi lo permetteranno, per tornare finalmente insieme.
[8 giugno 2021 – Casa di campagna]
“Oggi non si prende niente, mi sa che anche i pesci sono andati in Italia!”
Sulla riva del fiume i cugini recuperano la lenza, constatando che dopo due ore non ha ancora abboccato nulla. Galleggiante fosforescente, vite e bullone al posto dei piombini, un bel verme sull’amo. Non mancava niente all’appello, nemmeno il cappello da pescatore nuovo, mimetico, appena comprato nel negozietto di quartiere. Era stata mandata la zia a prendere il berretto, perché raccontare alla negoziante della partenza e del ritorno avrebbe comportato una serie infinita di domande e chiacchiere.
È il cugino quindicenne di Denis ad averci portati qui. Ha finito pochi giorni fa il suo percorso di studi al villaggio, e dall’anno prossimo comincerà meccanica industriale a Elbasan. Denis in questo punto del fiume non era mai venuto. Di solito pescava qualche chilometro più in su, ma quella parte del letto del fiume ha completamente cambiato forma a causa dei continui interventi edilizi, che ne hanno eroso la riva.
Oggi all’orizzonte si vedono anche i monti innevati, ma sono le colline più vicine a richiamare i ricordi di infanzia. D’inverno, quando gli uccelli si avvicinano ai centri abitati per cercare un po’ di caldo, prendeva la fionda e andava a caccia di merli. Era bravo, riusciva sempre a colpirli. Poi li portava a casa, li spennava e venivano cucinati. Erano buonissimi, molto più del pollo. Ma ora non ci va più, e pensa a come sarebbe buffo cacciare volatili con la fionda in giro per Milano. Ridiamo insieme e ci scambiamo pacche sulle spalle, mentre cerchiamo l’ombra del ponte ferroviario abbandonato. Probabilmente serviva il kombinat, e forse proprio per questo è rimasto inutilizzato dal periodo dello smantellamento del sistema.
Il cugino è un ragazzo alto, sorridente e di poche parole. Copre il capo con un berretto bianco targato Gucci e indossa pantaloni con le stampe di fiori tropicali. Sembra sapere poco dell’avventura migratoria di Denis, non conosce altre persone in Italia o in Europa, non ha ancora le idee chiare sul proprio futuro. Potrebbe partire, potrebbe restare, chissà. Lentamente prende confidenza, e quando arriviamo nella scuola che ha frequentato fino a qualche giorno fa comincia a raccontare qualcosa in più. Mostra una scritta fatta con la bomboletta con il suo nome. L’ha fatta lui l’ultimo giorno di scuola e ci mostra sui muri esterni del cortile scolastico decine di altri nomi: Adela, Silva, Andi, Franko, Ana, Tina, Xhuli. Generazioni di studenti e studentesse che una volta conclusi gli esami lasciano la propria firma e prendono la propria strada.
Denis ci porta nel punto in cui compariva il suo nome, ma constatiamo che quella vernice è sbiadita, mentre si vede perfettamente un grande fallo stilizzato che qualcuno ha disegnato proprio in quella parte del muro. Risate generali e poi prosegue il giro negli spazi esterni di un edificio che ospita elementari, medie e superiori, che in questo momento è chiuso perché la scuola è finita. Passeggiando emergono i ricordi. Un angolo sul retro dell’edificio principale, in cui tutti i bambini piccoli andavano a fare pipì. La pedana in ferro su cui ci si sfidava, per vedere chi cadeva per primo e chi resisteva agli spintoni dell’avversario. Il campo da calcio e da basket, anche se lui stava con gli altri a fumare. Le panchine ormai senza seduta, perché tutti si sedevano sulla spalliera, e a forza di appoggiare i piedi sul legno non era rimasta che l’anima metallica. L’albero oltre la recinzione, dove andavano a rubare le pesche. E poi il cortile principale, quello degli scherzi e delle litigate, come quella volta in cui durante l’esame un compagno continuava ad infastidirlo tormentandogli la nuca. “La smetti? No. La smetti? No. Ok, gli ho detto – ci vediamo all’intervallo. E l’ho aspettato”
[9 giugno 2021 – Ricordi d’infanzia]
Sulla strada di ritorno Denis indica una casa moderna a due piani, ancora in costruzione, con le pareti non intonacate. Spiega che quella casa l’ha costruita suo padre, insieme ad altri muratori. Faceva i lavori che capitavano. Costruzioni, manovalanza di ogni tipo, agricoltura nel villaggio o anche all’estero, in Grecia. Partiva d’estate, partiva durante l’anno, stava via a volte poco e a volte di più. Papà lo portava in quel cantiere. Era piccolo e non poteva aiutarlo, ma se lo ricorda bene. Oggi la casa non è ancora finita, ma il piano terra sembra abitato; a volte – spiega – la gente comincia a costruire ma non ha tutti i soldi.
Mamma e papà si erano conosciuti da grandi, con le famiglie di entrambi che avevano combinato l’incontro. La mamma era felice di sposarlo; a volte non andavano d’accordo, ma questo capita a tutte le coppie. Adesso i tempi sono cambiati e non sono più le famiglie a fare incontrare i figli. Ci si conosce in giro, ci si piace, e le famiglie accettano il volere dei figli, spiega Denis. Lui prima di partire per l’Italia aveva una fidanzata. Niente di serio, a quell’età non è che la porti a casa per presentarla alla famiglia. I suoi non sapevano nulla. Però erano stati insieme cinque mesi, e lui l’aveva lasciata poco prima di partire. Non si erano lasciati per la partenza di Denis, ma per una serie di problemi. “Cose da adolescenti” – dice Denis. Ridiamo e indaghiamo. Litigi? Tradimenti? Lei ti ha tradito? Tu l’hai tradita? Ride e si mantiene sul vago. Negli ultimi giorni si sono rivisti, ma erano in compagnia di altri amici quindi è difficile dire se sia andata bene o male. Chiediamo se era una compagna di classe, se l’abbiamo per caso conosciuta. Continua a ridere e chiude la conversazione: “non te lo dirò mai, te lo giuro”.
Suo papà in quel cantiere accanto allo stradone ci lavorava più di tre anni fa. Poi si era ammalato ai polmoni, una malattia strana che gli riempiva le gambe di macchie rosse. Aveva provato a curarsi ma non c’era stato nulla da fare, era morto in fretta. Ora il fratello del nonno ha una malattia che dà gli stessi sintomi, ma la cosa ancora più complicata è che lui non vuole essere ricoverato, non vuole smettere di fumare, non vuole nemmeno smettere di bere raki. Alla morte del padre Denis ha smesso di fumare e ha deciso di partire. Cercare un lavoro in città non aveva senso: avrebbe guadagnato meno di duecento euro al mese e ne avrebbe spesi più di mille solo per muoversi ogni giorno dalla campagna. Bisognava andare via. Per qualche anno, spiega, non potrà mandare a casa soldi. Ma tra un po’, magari cinque anni, riuscirà a portare la mamma in Italia e a spedire qualche soldo ai nonni e alla zia.
Nei giorni scorsi è andato a trovare papà al cimitero. La mamma ci va sempre. Di solito si portano fiori e preghiere, ma a lui queste cose non piacciono e non le sa fare. Quando ci va lui non porta nulla, vuole andarci e basta, e lo fa sempre da solo.
[9 giugno 2021 – Papà]
Ieri sera è stato a cena con il nonno e i cugini, in un ristorante a circa venti minuti da casa, sempre in campagna. Mamma, zia e nonna sono rimaste a casa. A volte capita che le donne vadano al ristorante con il resto della famiglia, ma è una cosa rara. E comunque a loro non piace, non si sentono a loro agio, spiega. Hanno mangiato carne di agnello e tasquebap, piatto tipico albanese che somiglia a uno spezzatino. al fine della cena il nonno voleva pagare per tutti. Denis era andato dal cameriere senza farsi vedere, aveva pagato metà di quanto dovuto e aveva chiesto di preparare un conto dimezzato da sottoporre al nonno, così che il nonno potesse davvero pagare per tutti. Alla fine così era andata, e il nonno era probabilmente tornato a casa con la soddisfazione di avere offerto un’ottima cena al ristorante ai suoi tre adorati nipoti.
[Appunti di viaggio – Pagare il conto]
Le figlie della professoressa quando vanno in Italia sono interessate solo alle zie e al cane, il resto poco importa. Quando la mamma parla con loro dell’eventualità di lasciare l’Albania non sono per nulla convinte. Qui stanno bene, a loro non manca nulla a parte le zie. Il marito fa l’architetto, e con i loro due stipendi si vive decisamente bene in Albania.
La professoressa ripensa ai suoi venti anni di insegnamento e sottolinea le differenze tra le diverse generazioni che ha visto crescere. I suoi primi studenti e le sue prime studentesse avevano una percezione chiara di cosa c’era stato prima di loro, del regime e di tutto il resto. Gli ultimi, i coetanei di Denis, quell’esperienza non la conoscevano quasi per nulla. Le migrazioni di oggi a lei non sembrano assolutamente paragonabili a quel passato. Allora si trattava di sacrifici, fatiche, rischi. Oggi è come avvicinarsi a un albero con i frutti maturi, bisogna semplicemente coglierli. Usa questa metafora e aggiunge che in qualche modo oggi è come se si trattasse di turismo, non di vera e propria emigrazione. Lei è nata nel periodo comunista, e all’epoca l’idea di potersene andare era un sogno. Ora è qualcosa che si può dare per scontato.
Andarsene ha senso. Una delle sue sorelle faceva l’interprete nei corsi di medicina e infermeria quando venivano a Elbasan docenti italiani. Quell’esperienza ha creato contatti e occasioni di trovare lavoro in Italia, e ora vive a Torino, a pochi chilometri dalla sorella che sta a Cuneo. Anche in Germania infermieri e medici sono estremamente richiesti, e la paga è molto più alta appena esci dall’Albania. Per contenere questo flusso in uscita servirebbero due tipi di movimenti: da un lato una riforma delle politiche e un cambiamento delle istituzioni, dall’altro un’assunzione di responsabilità delle giovani generazioni, che potrebbero scegliere di restare e investire sul proprio paese.
Su Denis ha solo ricordi positivi. Ricorda che ogni parola che usciva dalla sua bocca era pensata e ragionata. Ricorda che era serio e studioso, bravissimo in tutte le materie. Era affettuoso con i suoi compagni, che sapendo del suo ritorno avevano cominciato ad aspettarlo con trepidazione. Ricorda dei giorni della morte di suo padre, giorni in cui lo aveva visto così addolorato e chiuso in sé stesso da non sapere che fare. Aveva la sensazione che anche le sue condoglianze avrebbero potuto aggiungere altra tristezza, e allora se ne stava lontana. Pensava alla madre di Denis, e al vuoto lasciato dalla perdita del marito e della partenza del figlio.
Non ha dubbi, Denis farà grandi cose, diventerà qualcuno. Magari un medico, un avvocato, sicuramente riuscirà a realizzare tutti i sogni e gli obiettivi che si porrà. Ama restare in contatto con gli ex-alunni e seguire le loro storie, magari un giorno andrà a trovarlo a Milano.
[10 giugno 2021 – La professoressa]
Quando arrivava l’estate non si poteva andare al mare. Si stava in campagna, si partiva con un lenzuolo e si cercava un posto dove fare un picnic. Lui e i cugini lo facevano quasi tutti i giorni. Patatine e panini su un telo disteso nel prato. A volte si svegliava alle cinque e insieme agli amici per andare in collina a caccia di merli. Si partiva presto, perché all’alba gli uccelli scendevano dalle montagne. Si accerchiava il perimetro della zona di caccia e poi era proprio Denis, il migliore tiratore, ad avere il compito di colpire la preda. La natura e la pace, la pesca e la fionda, gli scacchi e il biliardo. Denis ha sempre preferito la serenità e il silenzio dei villaggi al caos delle metropoli.
Una volta mentre era a caccia di merli ha colpito per sbaglio una finestra con la sua fionda. Il vetro è andato in frantumi, il nonno se ne è accorto e l’ha sgridato. Era il nonno l’uomo di casa, era lui la persona con cui si confidava e alla quale faceva riferimento, perché il papà era sempre via per il lavoro e Denis riusciva a vederlo sette o otto volte all’anno al massimo. Era un tipo simpatico, andava d’accordo con tutti e -le poche volte che era a casa- con lui ci si divertiva.
Quando i cugini sono partiti hanno lasciato un vuoto nella vita di Denis. Dice “vuoto” in italiano, senza pensarci, proprio lui che pesa attentamente ogni parola. Era sempre con loro, e dal momento della loro partenza per la Germania lui è rimasto da solo. Non li vedeva da più di due anni e li ha trovati molto cambiati, soprattutto il più piccolo dei due, il suo coetaneo. Più muscoloso, più alto, meno capellone dell’ultima volta che lo aveva visto. Il più grande si era pure sposato. Solo con i documenti, senza festa. Perché la festa costa. Un giorno magari farà una bella festa di matrimonio in Albania, e allora sarebbe così bello poter andare. Bisognerà risparmiare qualche soldo, ma quello non sarà un problema, l’importante sarà avere dall’assistente sociale il permesso di partire.
[10 giugno 2021 – Vuoto]